A ben guardare le lacrime assomigliano a chicchi di riso. E per restare in tema morfologico, o forse perché credono nelle segnature, mai come quest’anno i risicoltori piangono. Fiumi di lacrime, che però potranno parzialmente contribuire a ridurre il volume dell’acqua da immettere nelle risaie.L’imprenditoria italiana è ben strana: quando ci sono i profitti non vedi e non senti nessuno. Appena i profitti diminuiscono alè con il pianto greco, la richiesta di sovvenzioni, tutele, leggi garantiste, l’evocazione di catenacci protezionistici che da tempo immemore non si usano più nemmeno nel gioco del calcio.
Se non fossimo quei tesorucci che siamo potremmo sostenere che del Debakel della risicoltura italiana intensiva non ce ne può fregar di meno, visti i costi sanitari e ambientali che comporta. E infatti è così.
Ne parliamo incidentalmente proprio in riferimento alla qualità del prodotto immesso sulle nostre mense: mai come quest’anno il riso della grande produzione è generalmente di pessima qualità. E la ragione non è solo perché oltre la metà proviene dall’estero in regime di esenzione daziaria e coltivato non si sa né dove né come, probabilmente in Africa nelle terre oggetto di land grabbing da parte di multinazionali indiane e cinesi, ben consce che da questo cereale, che costituisce generalmente il primo alimento assunto durante lo svezzamento, dipende la sopravvivenza del 50 per cento della popolazione mondiale.
Ma consentiteci, prima di entrare in argomento, una breve digressione storica: ci farà comprendere come i risicoltori non fossero dei santi nemmeno nell’Ottocento, quando in Italia iniziò la coltivazione moderna grazie alle decine di varietà portate in patria – la storia non lo dice ma si suppone di sfroso – nel 1839 da Giovanni Calleri, gesuita missionario in Estremo Oriente. I semi selezionati attecchirono subito e la coltivazione ebbe un’impennata, uscendo dal giogo di una malattia, chiamata brusone, che affliggeva il Nostrale, l’unica qualità sino ad allora coltivata sul territorio nazionale.
Da quel momento il riso, e i suoi produttori latifondisti, furono a modo loro antesignani del land grabbing nostrano, accaparrandosi terre sempre più estese nel basso Piemonte e in Lombardia che, non sempre provviste di sedimento e drenaggio adeguati, furono in gran parte fonte del flagello della malaria. Nel Casalese, Vercellese e Pavese le risaie costituivano la coltura dominante: rendevano molto ai padroni e una miseria a chi ci lavorava, che in più si portava a casa la febbre terzana. Il primo a denunciarne effetti e ragioni fu Giovanni Lanza, medico e Presidente del Consiglio dal 1869 al 1873. A quella prima denuncia fece seguito nel 1877, in occasione di una vera e propria epidemia, quella di Benedetto Cairoli, Presidente del Consiglio eletto a Pavia nelle fila della Sinistra storica, e ne nacque uno scontro con Agostino Depretis, allora Ministro dell’Interno, anch’egli pavese di Stradella ma rappresentante gli interessi dei proprietari terrieri.
Il riso e il suo potere finanziario consentirono al Regno Sabaudo la realizzazione di importanti opere idrauliche come il Canale Cavour e, in concorso con altri interessi manifatturieri, una fitta rete di strade, tramvie e ferrovie economiche che sfruttavano la sede stradale e che non nacquero certamente per trasportare persone – visto che il costo dei biglietti non era alla portata dei miserabili che vivevano nelle campagne – ma per addurre merci, manufatti e semilavorati alle linee ferroviarie principali affinché raggiungessero i porti d’imbarco o i valichi transalpini (vedasi in proposito: Luigi Ballatore, Storia delle Ferrovie in Piemonte, Editrice Il Punto, anno 2002).Fine dell’ora di storia. E ora, pacco del kleenex a portata di mano.
Tra costi e ricavi sembra che i conti non tornino: import a dazio zero dall’estero, prezzi che crollano, elevati costi di produzione e burocratici, impossibilità di comprimere molte voci di spesa, ricerca genetica sempre più cara e guadagni quasi nulli. Una ricerca presentata dall’Associazione dei laureati in scienze agrarie e forestali di Vercelli e Biella durante la Fiera in campo di Vercelli che si è tenuta il 4 e 5 marzo ha fatto i conti in tasca agli agricoltori mostrando l’amara situazione del settore.
Fra il 2015 e il 2016 sia gli ettari a riso nazionali sia la produzione sono aumentati (+90mila tonnellate) ma anche le scorte di risone sono elevate. Colpa, secondo i risicoltori, dei paesi cosiddetti meno avanzati che continuano a esportare in Europa a dazio zero.
Secondo i dati forniti dall’Associazione di cui sopra solo le aziende oltre i 300 ettari e che coltivano Arborio, Carnaroli o Lungo B hanno portato a casa la copertura dei costi e una modesta remunerazione per il proprio lavoro, tutte le altre sono andate sotto. Va tenuto presente che la dimensione media delle aziende risicole italiane si aggira sui 50 ettari, però quello che la ricerca non dice è che c’è una tendenza alla concentrazione. Il che, espresso in altri termini, significa che sempre meno aziende possiedono superfici sempre più elevate. Nessuno si è premurato di farci sapere chi siano questi facoltosi possidenti, anche se probabilmente finirà come a Milano: quando i cinesi arrivavano in bar, ristoranti, negozi con la proverbiale valigetta ricolma di contanti, pagando prezzi senza trattare, tutti a ossequiare e a vendere, ed ora tutti a lamentarsi dello strapotere degli operatori commerciali con gli occhi a mandorla.
L’Associazione, chiosando che le aziende risicole italiane contribuiscono a mantenere in ordine il territorio, propone di andare verso reti d’impresa, programmare accuratamente le semine coordinando ditte sementiere, industria e aziende agricole in modo da evitare scompensi sul mercato, liberare le aziende dalla burocrazia, puntare sulla ricerca genetica, razionalizzare il parco macchine e premere sull’Unione Europea – quell’Unione che normalmente viene schifata, salvo pietirla quando fa comodo – perché, oltre a porre un freno all’invasione del riso straniero, vigili affinché il prodotto in arrivo rispetti le norme sull’utilizzo di fitofarmaci. Un bel quadro, non c’è che dire, e la sconsolata conclusione della ricerca è che in assenza di cambiamenti e interventi pubblici il comparto risicolo nazionale rischia di scomparire.
Perché ciò non accada non serve che i risicoltori si attacchino a succhiare un’ormai asfittica tetta pubblica, il cui sempre più scarso alimento verrebbe distolto ad altre ben più utili cause.
Il fondatore di Slow Food Carlo Petrini, detto Carlin, affermò: “L’agricoltura, che dovrebbe fondarsi su un’alleanza tra uomo e natura, è diventata invece una guerra. E non è un caso che le tecnologie per fare i pesticidi provengano tutte dall’industria bellica: l’agricoltura industriale è di fatto una dichiarazione di guerra alla Terra.” Ecco, queste parole contengono la soluzione: sarebbe ora che l’agroalimentare lo frequentasse gente consapevole che è ormai tempo di perseguire un’agricoltura sostenibile.
Ma è ora che anche i consumatori si decidano in massa ad acquistare direttamente dai produttori eliminando la ragion d’essere delle catene intermediarie, utilizzando le risorse economiche per pagare il cibo al giusto prezzo. Privilegiando la tavola, piuttosto che il tablet, pur nella consapevoelzza che anche riguardo al riso non è bio tutto ciò che non luccica. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Alberto C. Steiner
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