Riso in lacrime

A ben guardare le lacrime assomigliano a chicchi di riso. E per restare in tema morfologico, o forse perché credono nelle segnature, mai come quest’anno i risicoltori piangono. Fiumi di lacrime, che però potranno parzialmente contribuire a ridurre il volume dell’acqua da immettere nelle risaie.CV 2017.03.11 Riso 001L’imprenditoria italiana è ben strana: quando ci sono i profitti non vedi e non senti nessuno. Appena i profitti diminuiscono alè con il pianto greco, la richiesta di sovvenzioni, tutele, leggi garantiste, l’evocazione di catenacci protezionistici che da tempo immemore non si usano più nemmeno nel gioco del calcio.
Se non fossimo quei tesorucci che siamo potremmo sostenere che del Debakel della risicoltura italiana intensiva non ce ne può fregar di meno, visti i costi sanitari e ambientali che comporta. E infatti è così.
Ne parliamo incidentalmente proprio in riferimento alla qualità del prodotto immesso sulle nostre mense: mai come quest’anno il riso della grande produzione è generalmente di pessima qualità. E la ragione non è solo perché oltre la metà proviene dall’estero in regime di esenzione daziaria e coltivato non si sa né dove né come, probabilmente in Africa nelle terre oggetto di land grabbing da parte di multinazionali indiane e cinesi, ben consce che da questo cereale, che costituisce generalmente il primo alimento assunto durante lo svezzamento, dipende la sopravvivenza del 50 per cento della popolazione mondiale.
Ma consentiteci, prima di entrare in argomento, una breve digressione storica: ci farà comprendere come i risicoltori non fossero dei santi nemmeno nell’Ottocento, quando in Italia iniziò la coltivazione moderna grazie alle decine di varietà portate in patria – la storia non lo dice ma si suppone di sfroso – nel 1839 da Giovanni Calleri, gesuita missionario in Estremo Oriente. I semi selezionati attecchirono subito e la coltivazione ebbe un’impennata, uscendo dal giogo di una malattia, chiamata brusone, che affliggeva il Nostrale, l’unica qualità sino ad allora coltivata sul territorio nazionale.
Da quel momento il riso, e i suoi produttori latifondisti, furono a modo loro antesignani del land grabbing nostrano, accaparrandosi terre sempre più estese nel basso Piemonte e in Lombardia che, non sempre provviste di sedimento e drenaggio adeguati, furono in gran parte fonte del flagello della malaria. Nel Casalese, Vercellese e Pavese le risaie costituivano la coltura dominante: rendevano molto ai padroni e una miseria a chi ci lavorava, che in più si portava a casa la febbre terzana. Il primo a denunciarne effetti e ragioni fu Giovanni Lanza, medico e Presidente del Consiglio dal 1869 al 1873. A quella prima denuncia fece seguito nel 1877, in occasione di una vera e propria epidemia, quella di Benedetto Cairoli, Presidente del Consiglio eletto a Pavia nelle fila della Sinistra storica, e ne nacque uno scontro con Agostino Depretis, allora Ministro dell’Interno, anch’egli pavese di Stradella ma rappresentante gli interessi dei proprietari terrieri.
Il riso e il suo potere finanziario consentirono al Regno Sabaudo la realizzazione di importanti opere idrauliche come il Canale Cavour e, in concorso con altri interessi manifatturieri, una fitta rete di strade, tramvie e ferrovie economiche che sfruttavano la sede stradale e che non nacquero certamente per trasportare persone – visto che il costo dei biglietti non era alla portata dei miserabili che vivevano nelle campagne – ma per addurre merci, manufatti e semilavorati alle linee ferroviarie principali affinché raggiungessero i porti d’imbarco o i valichi transalpini (vedasi in proposito: Luigi Ballatore, Storia delle Ferrovie in Piemonte, Editrice Il Punto, anno 2002).CV 2017.03.11 Riso 002Fine dell’ora di storia. E ora, pacco del kleenex a portata di mano.
Tra costi e ricavi sembra che i conti non tornino: import a dazio zero dall’estero, prezzi che crollano, elevati costi di produzione e burocratici, impossibilità di comprimere molte voci di spesa, ricerca genetica sempre più cara e guadagni quasi nulli. Una ricerca presentata dall’Associazione dei laureati in scienze agrarie e forestali di Vercelli e Biella durante la Fiera in campo di Vercelli che si è tenuta il 4 e 5 marzo ha fatto i conti in tasca agli agricoltori mostrando l’amara situazione del settore.
Fra il 2015 e il 2016 sia gli ettari a riso nazionali sia la produzione sono aumentati (+90mila tonnellate) ma anche le scorte di risone sono elevate. Colpa, secondo i risicoltori, dei paesi cosiddetti meno avanzati che continuano a esportare in Europa a dazio zero.
Secondo i dati forniti dall’Associazione di cui sopra solo le aziende oltre i 300 ettari e che coltivano Arborio, Carnaroli o Lungo B hanno portato a casa la copertura dei costi e una modesta remunerazione per il proprio lavoro, tutte le altre sono andate sotto. Va tenuto presente che la dimensione media delle aziende risicole italiane si aggira sui 50 ettari, però quello che la ricerca non dice è che c’è una tendenza alla concentrazione. Il che, espresso in altri termini, significa che sempre meno aziende possiedono superfici sempre più elevate. Nessuno si è premurato di farci sapere chi siano questi facoltosi possidenti, anche se probabilmente finirà come a Milano: quando i cinesi arrivavano in bar, ristoranti, negozi con la proverbiale valigetta ricolma di contanti, pagando prezzi senza trattare, tutti a ossequiare e a vendere, ed ora tutti a lamentarsi dello strapotere degli operatori commerciali con gli occhi a mandorla.
L’Associazione, chiosando che le aziende risicole italiane contribuiscono a mantenere in ordine il territorio, propone di andare verso reti d’impresa, programmare accuratamente le semine coordinando ditte sementiere, industria e aziende agricole in modo da evitare scompensi sul mercato, liberare le aziende dalla burocrazia, puntare sulla ricerca genetica, razionalizzare il parco macchine e premere sull’Unione Europea – quell’Unione che normalmente viene schifata, salvo pietirla quando fa comodo – perché, oltre a porre un freno all’invasione del riso straniero, vigili affinché il prodotto in arrivo rispetti le norme sull’utilizzo di fitofarmaci. Un bel quadro, non c’è che dire, e la sconsolata conclusione della ricerca è che in assenza di cambiamenti e interventi pubblici il comparto risicolo nazionale rischia di scomparire.
Perché ciò non accada non serve che i risicoltori si attacchino a succhiare un’ormai asfittica tetta pubblica, il cui sempre più scarso alimento verrebbe distolto ad altre ben più utili cause.
Il fondatore di Slow Food Carlo Petrini, detto Carlin, affermò: “L’agricoltura, che dovrebbe fondarsi su un’alleanza tra uomo e natura, è diventata invece una guerra. E non è un caso che le tecnologie per fare i pesticidi provengano tutte dall’industria bellica: l’agricoltura industriale è di fatto una dichiarazione di guerra alla Terra.” Ecco, queste parole contengono la soluzione: sarebbe ora che l’agroalimentare lo frequentasse gente consapevole che è ormai tempo di perseguire un’agricoltura sostenibile.
Ma è ora che anche i consumatori si decidano in massa ad acquistare direttamente dai produttori eliminando la ragion d’essere delle catene intermediarie, utilizzando le risorse economiche per pagare il cibo al giusto prezzo. Privilegiando la tavola, piuttosto che il tablet, pur nella consapevoelzza che anche riguardo al riso non è bio tutto ciò che non luccica. Ma di questo parleremo un’altra volta.

Alberto C. Steiner

Siegi am Stilfserjoch

Vi sono persone che ad un certo punto trovano il coraggio di ascoltarsi. E scelgono.CC-2016.03.07-Siegi-003.jpgUna di queste è Siegi: ha lavorato in banca per un quarto di secolo, giù in valle, e quando è morto suo padre ha sentito il bisogno di ritrovare il contatto con la natura tornando al paese, dove vivono prevalentemente gli anziani perché i ragazzi se ne vanno per studiare e spesso non tornano più. 500 anime a 1.300 metri di altitudine dominati dal massiccio dell’Ortles con i suoi 3.905 metri e le sue nevi perenni.
A sud l’Adamello e la Valcamonica, a ore sette la Valtellina, a ore nove i Grigioni e il Bernina, a est la Vinschgau che, all’orizzonte, si apre sulla piana di Merano.
Stilfs, in italiano Stelvio: un luogo molto diverso dai presepi altoatesini. Qui c’è una sola strada, quella che passa sotto il Dreisprachenspitze – in italiano banalmente Cima Garibaldi, che forse millantò di aver dormito anche qui – con le sue rampe ed i suoi quarantotto tornanti ancora considerata palestra dell’ardimento da trogloditi che per dimostrare quanto sono cazzuti la percorrono in moto e in auto, strappando urla strazianti ai motori tirati allo spasimo o imballati da inutili scalate. E ogni tanto qualcuno frena troppo tardi.
Per il resto si va a piedi fra boschi, costoni e prati quasi verticali, ed è qui che Siegi si dedica totalmente alle erbe, che coltiva e raccoglie nei campi a duemila metri, di proprietà della famiglia da generazioni e mai concimati con sostanze chimiche o sintetiche, per cucinare e per farne tisane, medicamenti o cosmetici. Ha ottenuto il permesso di raccogliere alchemilla, biancospino, borsa del pastore, crespino, eufrasia, olivello spinoso, prugnolo, rosa canina e, in più, d’estate sfalcia i prati per raccogliere il fieno, che è riuscito a far certificare come “Fieno d’alta montagna Sudtirolese”. Durante l’essiccazione l’inebriante profumo delle 40 diverse qualità si confonde con quello del legno stagionato.CC-2016.03.07-Siegi-001.jpgSiegi è noto anche per allestire, ogni estate, una specie di palcoscenico sul tetto del suo maso, destinato ad ospitare concerti. Questa iniziativa ha un nome: Stilfs Vertikal, Stelvio Verticale.
Nel maso, e nella Stube, accoglie anche gli ospiti ai quali fa assaggiare le sue proverbiali tisane e qualche bicchiere di Blauburgunder, di Traminer o di grappa con erbe capace di resuscitare i morti.
Molti vengono ad aiutarlo nel periodo della raccolta, in cambio Siegi offre vitto e alloggio. Vengono da Austria, Germania, Svizzera, Olamda e persino Finlandia. Dall’Italia se ne vedono ben pochi. Forse sono impegnatissimi in defatiganti cerchi di condivisione al ritmo del tamburo sciamanico per decidere se, dove, come, quando realizzare ecovillaggi dopo aver risolto i conflitti grazie ad un facilitatore.

Alberto C. Steiner