Ritrovare l’autonomia alimentare nell’Europa dei muri che uniscono

L’immondo virus, inventato per imprigionare corpi, istupidire menti ed annichilire anime facendo tracimare la parte peggiore degli esseri cosiddetti umani, può rappresentare un’irripetibile opportunità di crescita nella decrescita, possibile attraverso una consapevole rivalutazione dei localismi.
Coerentemente con i temi trattati da CondiVivere mi riferisco, in particolare, all’incombente grave crisi alimentare mondiale.
Dal loro limitato orizzonte gli italilandesi festeggiano l’apertura degli stabielli ai transiti interregionali, oppure la contestano come dimostrano gli ignobili insulti lanciati dai liguri ai milanesi riversatisi sulle si fa per dire spiagge della regione.
Ma nessuno che alzi lo sguardo oltre la siepe, nessuno che al di là delle chiacchiere da social bar sia in grado di comprendere come la festa non sia affatto finita, e che il peggio stia per arrivare. E non mi riferisco a divisori di plexiglass tra i banchi di scuola, non mi riferisco a vaccini o microchip, ma alla fame.
A causa della riformulazione in atto del concetto di trasporto, ed alle restrizioni all’esportazione attuate da numerosi stati sin dall’inizio della crisi, il libero scambio si è grippato, nessun paese è immune dalla riduzione e dall’interruzione dei flussi e ciò porterà a riconsiderare, tra gli altri aspetti, quello della possibile cessazione della globalizzazione delle disponibilità e, in subordine, quello della stagionalità.
La questione non riguarderà tanto banane, mango, papaya, ananas ed altri frutti, germogli, bacche, legumi esotici che potrebbero scomparire dagli scaffali dei nostri supermercati, o tornare ad essere delle costose rarità, quanto prodotti di necessità primaria, come le granaglie, che rappresentano oltre il 90% delle importazioni e dai quali i fabbisogni alimentari della penisola dipendono in misura prossima al 60 per cento, senza dimenticare la soia americana destinata alla nutrizione animale.
Non ho mai creduto nel villaggio globale ma, pur propugnando da anni la costituzione di piccole comunità il più possibile autonome, non sono isolazionista.
Proprio per tale ragione desidero sviluppare l’argomento di oggi richiamando un articolo che pubblicai il 27 agosto 2016, intitolato L’Europa minore dei muri che uniscono, del quale riporto un estratto:CV 2020606 001«Ci piacciono le notizie di nicchia, quelle di cui nessuno parla perché non funzionali a fomentare odio, paura o sindrome del complotto. Quella sui muri a secco della Val Poschiavo è una di queste.
Il paesaggio montano è fortemente caratterizzato, anche culturalmente, dai muri a secco che sottendono spesso terrazzamenti sui quali – grazie ad un faticoso riporto di terra – vengono coltivate specie che danno origine a qualificate produzioni tipiche: per esempio i preziosi vigneti di Valtellina.
A dimostrazione della continuità e della contiguità antropologica sono presenti, nella medesima tipologia, anche sul versante retico settentrionale, appartenente amministrativamente al Cantone svizzero dei Grigioni e costituente parte integrante del Patrimonio Mondiale Unesco anche grazie alla presenza della RhB, la Ferrovia del Bernina, pregevolissima opera di ingegneria armoniosamente inserita nel paesaggio tanto da costituirne oggi una componente imprescindibile.
Per mantenere viva la memoria delle tecniche costruttive, con l’obiettivo preciso di garantire la trasmissione della conoscenza e del sapere legati alla costruzione a regola d’arte di questi manufatti, l’Associazione Polo Poschiavo con sede nell’omonima cittadina e Unimont, l’Università della Montagna con sede a Edolo, organizzano dal 6 al 10 settembre prossimi (il riferimento è all’anno 2016 – NdR) il 3° Corso pratico finalizzato alla comprensione, realizzazione e manutenzione dei muri a secco: rivolto a muratori, apprendisti, agricoltori, professionisti prevede la realizzazione di un muro a secco con intercalate lezioni teoriche e visite ad analoghe strutture realizzate.»
L’articolo parla di muretti a secco, ma il senso è estensibile all’agricoltura nelle sue contiguità internazionali, macroregionali, locali per arrivare a quel concetto di piccolo che consente di riprendere a pensare in modo da soddisfare le esigenze della comunità, lasciando comunque spazio agli scambi.
Non è detto che lo spettro della penuria alimentare incomba sulle popolazioni più vulnerabili, per esempio sulla solita Africa subsahariana.
La rottura delle catene degli approvvigionamenti inasprirà fame e malnutrizione a causa della difficoltà di accesso al cibo dovuta all’aumento dei prezzi ed agli stoccaggi di cereali e riso.
Nel favoloso mondo di Amélie della globalizzazione nessun paese dispone oggi di accantonamenti strategici capaci di assorbire le necessità consentendo di attendere l’estinguersi della crisi.
Le stesse componenti dei mangimi che nutrono il bestiame da latte o da macello provengono dai luoghi più disparati del pianeta, insieme con fosfati, azoto minerale, fertilizzanti, petrolio per alimentare i camion che riforniscono i supermercati, metano per il riscaldamento. Il tutto prevalentemente trasportato via strada, ferrovia, mare e nuovamente ferrovia e strada sino alla consegna.CV 20200606 002La nostra illusione di sicurezza alimentare permarrà solo fino a quando i flussi del trasporto non si interromperranno, per sempre od anche solo per un mese.
Ciò accade anche perché nel corso degli anni, promuovendo l’idea di coltivare ciò che rende maggiormente, importando il resto, si è data la stura ad eccessive specializzazioni agricole, atuate su vaste aree spesso frutto di speculazioni, consumo del suolo e nocumento alla biodiversità quando non provento del land-grabbing.
Ma l’emergenza ci sta dimostrando non solo quanto sia strategicamente suicida dipendere dall’estero per prodotti di prima necessità, ma anche come le persone dalla mente non ancora offuscata si siano organizzate, autonomamente o in minuscoli consorzi di acquisto, ricorrendo a circuiti di prossimità, alla spesa in cascina, ai gruppi di acquisto solidale.
Ma ciò, per quanto sia importante sotto il profilo di una ritrovata consapevolezza, costituisce un fatto marginale, al quale si affianca un inevitabile cenno alla capacità di spesa: comprare in cascina non costa come farlo al supermercato, a dimostrazione che la qualità non può essere svenduta.
Non bisogna però dimenticare chi non ha più un lavoro, chi sta erodendo o ha eroso i risparmi, chi è già oggi alla fame e non può ricorrere all’aiuto che molte organizzazioni pubbliche e private stanno fornendo. Costoro effettuano acquisti di prodotti commercializzati a basso, quando non bassissimo, prezzo nelle varie catene discount. Nutrendosi con cibi di infima qualità, vera e propria spazzatura velenosa destinata ad ingenerare patologie anche gravi.
Impennate di prezzi di particolare gravità non se ne sono viste ma, anche a detta di militari, evidentemente tanto esperti di strategia quanto inascoltati dal circo cialtrone della politica, il rischio peggiore potrebbe essere ingenerato da un qualsiasi fattore che comporti il blocco dei trasporti, evenienza che rivelerebbe l’assoluta impotenza dovuta a magazzini privati e pubblici vuoti ed all’incapacità di produrre a livello locale in quantitativi sufficienti.
In tal caso l’ipotesi di sommosse e di assalti alle aziende agricole è considerata tutt’altro che remota.
Conclusione: la soluzione, non immediata negli esiti ma per la quale è necessaria una pronta progettazione, consiste nell’instaurazione di piccole comunità che, letteralmente, si coltivino il proprio orticello in modo da garantire l’autoconsumo.
Va tenuto presente che in regioni come la Lombardia, notoriamente la superficie coltivabile più importante d’Europa, gli appezzamenti di terreno sono sempre più concentrati nelle mani di aziende agricole di notevoli dimensioni. Ed anche questo costituisce, unitamente alle monocolture da reddito, un grosso problema.

Alberto Cazzoli Steiner

Dall’immondo virus il nuovo Rinascimento

Precisazione: il tema di questo scritto lo rende compatibile con la pubblicazione sia su CondiVivere sia su La Fucina dell’Anima.CC 2018.08.01 Letame 003Dall’8 marzo a ieri, 26 maggio, ho avuto pochissime occasioni di misurarmi con i talebani della mascherina e del guanto.
La prima fu quando, all’ingresso di un supermercato, ricevetti l’applauso di un medico che, allorché illustrai alla guardia di porta il reale concetto di contaminazione traslandolo ai cervelli, disse: “Applauso al signore che ha detto quello che io, come medico, non posso permettermi di dire.”
La seconda fu quando smisi di frequentare quello stesso supermercato perché una ragazzetta dello staff credette di potermi tenere un sermoncino sull’uso della mascherina.
La terza fu per strada quando venni apostrofato da uno di quei vecchi che in vita – era già morto ma non lo sapeva ancora – furono uomini tutti d’un pezzo, tipico il caso dell’ex-militare di carriera che, lui sì, saprebbe come mettere a posto e far rigare dritta questa ciurmaglia di drogati, senzadio, culattoni e, va da sé, comunisti.
È nota la mia avversione ai rossi, ma non mi sognerei mai di farli rigare dritti, mi accontento di fare ciò che posso per contribuire alla loro estinzione.
La quarta fu ieri, tanto per cambiare in un grande magazzino, ed inutile fu il mio tentativo, certamente non attuato con tono di voce mellifluo o remissivo, di far ragionare il tizio di turno: esaurito il mio brevissimo accenno al concetto di manipolazione l’unico neurone rimasto del suo cervello in libertà vigilata lo coartò ad affermare: “Si-ma-lei-deve-me-t-tere-la-ma-s-che-rina.”
E mentre l’ignoto schiavo respirava i propri miasmi rabbiosi, resi mefitici e, nel prosieguo d’uso, letali proprio grazie alla piccola strassa, da taluni orgogliosamente indossata nella versione tricolore, io uscivo con il cuore in festa nel sole e nell’aria frizzante, odorando l’afrore di alcuni alberi di fico e mappando a futura memoria un cospicuo rovo di more.
Tornato nel centro dell’antica minuscola città che mi ospita, scoprendomi assetato mi dirigevo verso un pub, trovandolo chiuso ma nel contempo scoprendo proprio di fronte un graziosissimo ristorantino con pareti in parte di pietra faccia a vista, illuminate dalla luce diffusa e calda di lampade sapientemente posate, ed in parte affrescate con richiami etruschi ed alla pompeiana Villa dei Misteri in armoniosa commistione.
Grazie alla mia disposizione d’animo – chiamatela, se preferite, vibrazione – ho cocreato una realtà di tempo dilatato, priva di costrizioni paranoiche e costituita da un aperitivo morbidamente fluito in un imprevisto pranzo scandito da un servizio ineccepibile, cordiale ed ammirevole, allietato da ottimo cibo, gradevolissimi vini ed un’interessante conversazione con un altro, sconosciuto, avventore.FDA 20200527 002Tutto questo mi ha portato a considerare quanto io, nonostante me la prenda per dovere civico con untori e dittatorelli vari, sia in realtà felice che si sia scatenata questa presunta pandemia all’insegna di un non-virus strumento per manipolare quegli esseri che anelavano alla prigione, ad essere trattanti da poppanti da un padrone che dicesse loro cosa fare e cosa non fare con la minaccia di bacchettare sul popò i trasgressori.
Sono felice di aver rimosso zavorra costituita da persone e sovrastrutture inutili, sono felice perché sto progettando un futuro lavorativo all’insegna di progetti che mi evocano le luci e gli odori del bosco.
Sono infine, ma dico anche purtroppo, felice di constatare come ciò che dal novembre scorso costituì lo scenario di visioni e viaggi nell’altrove stia puntualmente accadendo, a partire da febbraio.
Dapprima con la prigionia coatta, accompagnata da un costante fremito di scosse telluriche (e non abbiamo ancora visto quelle vere: arriveranno) e, nel prosieguo, di vessazione in vessazione mistificata da misura di prevenzione sino ad oggi, con il tentativo maldestro di istituire un corpo di guardie rosse in forma di assistenti civici con il compito di delatori, segnalatori al Sant’Uffizio di streghe, untori ed eretici in una parossistica tensione e tenzone che metterà contro fazioni dell’appecorata plebe, ancora oggi orgasmicamente attratta dai roghi in piazza, provvista di un cervello i cui 1.500 grammi di peso servono solo ad alzare il baricentro, incapace di discernimento, impaurita ed ignorante, impaurita proprio perché in cambio di un piatto di lenticchie, di plastica, ha permesso che la si tenesse nell’ignoranza.
Molto ancora accadrà, prima della resa dei conti, ed assisteremo all’ultima vanagloriosa ascesa, prima della rovina finale, di esperti del nulla, di dittatori pagliacci, di sbirri che dichiarano di essere dalla parte della gente ma intanto intascano i trenta denari di indennità.
Anche la natura farà il suo corso ma non, come affermato da Galimberti, perché sia matrigna, vendicativa e incazzosa come il dio misogino dell’antico testamento: farà il suo corso perché è nell’ordine delle cose, perché questo esserino, questo omuncolo antropocentrico, non ha ancora capito che può essere spazzato via in ogni istante, e che i danni che ha inferto a Madre Terra sono solo ferite superficiali.
Mentre il pecorame, esattamente come più volte accadde in passato, si compiace della dittatura incipiente, il conto karmico di tutto è in arrivo una volta per tutte. Fateci caso, se non siete distratti dalle notizie terroristiche: ogni giorno emerge in superficie un pezzo di schifo, una parte della crosta immonda: dai bambini di Bibbiano a quelli del Forteto, dalla verità sui vaccini a quella delle reali cause delle morti attribuite al virus e via enumerando.
E non serve il lavoro di Guglielmo Cancelli e dei suoi laidi scherani e lacchè per far sì che si rimanga in pochi: 90/10.
E quando lo saremo, in pace, tra anime giuste e menti in buona salute, balleremo sulle macerie di questa farsa da avanspettacolo, prima di rimboccarci le maniche per ricostruire un mondo migliore, il nostro mondo.
Lasciando alle torme di sub-umani le puteolenti suburre urbane, agli zombie dalla faccia incrostata di terra e sangue rappreso i falò nelle stazioni delle metropolitane ridotte a riparo, agli esegeti della mascherina gli episodi di cannibalismo.CV 20200527 001Quelli come noi saranno i protagonisti del nuovo Rinascimento delle anime e del territorio, coloro che abbandoneranno il carico antropico dei grandi agglomerati, e presumibilmente anche di quelli di medie dimensioni, estesi in quella provincia della quale un tempo si disse che era sana, senza sapere del verminaio che prolificava sotto la superficie.
Molti di noi andranno ad occupare i quasi due milioni di case su 4,3 milioni oggi disabitate, in contesti insediativi che nel tempo antecedente il morbus gravis vennero ritenuti disagiati, svolgendo lavori creativi e portando innovazione sostenibile, sperimentando l’economia collaborativa e la condivisione di spazi, beni e servizi.
Lavorare nella e per la comunità, prendersi cura delle persone, costruire esperienze in borghi di poche centinaia di abitanti sperimentando nuove relazioni con il territorio circostante ed integrando energie rinnovabili ed efficienze energetiche costituirà la fase applicativa della nuova visione.
Le opportunità offerte, tra tradizione e innovazione, peculiarità locali e sviluppo globale costituiscono un patrimonio che riguarda oltre la metà del territorio nazionale ed il 70 per cento dei 7.954 comuni: ciò permetterà di valorizzare, ponendosi nella condizione di essere pronti per quando sarà il momento, l’offerta culturale, turistica ed enogastronomica.
Agglomerati e territori esistono: sono quelli che nei secoli hanno contribuito a costruire l’immagine e l’immaginario della penisola, anche antropizzato come dimostrano i dolci rilievi toscani o i terrazzamenti liguri e valtellinesi, e nei quali verranno messi al centro il lavoro, la salvaguardia dell’ambiente, il radicale ripensamento dei servizi trasformando la marginalizzazione in risorsa.
La stessa tecnologia che sinora ha diviso costituirà un punto di forza. Mi riferisco non solo a quella che fu la difficoltà di raggiungere servizi essenziali quali scuole, presidi sanitari, uffici postali, ma anche al mancato interesse degli operatori delle telecomunicazioni ad investire portando nelle campagne ed in media montagna le proprie infrastrutture per la connessione veloce.
Questa mancanza favorirà un ritmo lento, un diverso approccio alle relazioni, anche di affari, contribuendo a garantire una buona qualità della vita, possibile anche disponendo di un reddito non elevato.
Non vogliamo respirare aria inquinata: i vecchi rognosi e imbecilli che hanno dimostrato di impestare le città con i loro luridi egoismi, le attività delatorie, il loro sconcio terrore che li avrebbe portati, se avessero potuto farlo, ad incarcerare e sopprimere chiunque, verranno pertanto volentieri lasciati alle suburre del medioevo prossimo venturo.
Gli altri, che preferisco definire anziani proprio per una questione di rispetto, potranno vivere condividendo fra loro abitazioni e servizi, ottimizzando cure mediche e infermieristiche, momenti di socialità e di fruizione culturale.
Le comunità potranno autoprodurre una parte del fabbisogno alimentare in una logica di qualità. Già oggi il 92 per cento delle produzioni tipiche è opera di 297mila aziende che hanno sede in comuni con meno di 5.000 abitanti, dove esperienze anche recenti dimostrano quanto l’agricoltura basata su princìpi ecosostenibili e legata ai territori sia il più importante alleato per uno sviluppo armonioso ed economicamente sostenibile.
Tutto questo senza dimenticare i quasi 11 milioni di ettari costituiti da foreste, in costante crescita proprio perché non rappresenta l’esito di politiche mirate ma la conseguenza dell’abbandono dei territori agricoli e dei pascoli, soprattutto montani.FDA 20200527 001Si potrebbero recuperare attività forestali non legnose: frutta, funghi, piante aromatiche o di uso cosmetico e medicinale, selvaggina, fibre, resine garantendo un’adeguata protezione del suolo e una efficace conservazione della biodiversità.
Gli stimoli capaci di condurre alle interpretazioni di un mondo nuovo sono innumerevoli. Ma la vera sfida consiste nel coraggio di promuovere innovazione e recupero della tradizione, convogliando idee e risorse per progettare e realizzare spazi sicuri, accoglienti e sostenibili.

Alberto Cazzoli Steiner