Ecovillaggi, non boschi in città

Polemizzare non serve a nulla, specialmente in questo momento che ha visto sbocciare dal nulla il fior fiore di nuovi maître-à-penser, con i loro canali youtube a pagamento freschi di conio, presi d’assalto da chi anela ad una certezza, uno spiraglio di verità, un viatico contro la solitudine.
Per i più intraprendenti e spregiudicati l’immondo virus ha aperto la porta a nuovi modi per sbarcare il lunario.
E veniamo a questo articolo, nel quale analizzerò ciò che apparentemente potrebbe sembrare il deja vu di comuni nate negli anni 70, e miseramente fallite, per giungere a tracciare linee guida dedicate a come dovrebbero essere le realtà fondate anzitutto su principi spirituali e coesivi, naturalmente intesi nel senso di ciò che a ciascuno è più congeniale.
Fermo restando che, fin dall’età di sedici anni, il mio ideale rimane il kibbutz israeliano nel suo connubio di torah, zappa e mitraglietta, e che trovo superato solo dalla forza coesiva degli Amish, bisogna tenere presente che ecovillaggio è un termine che, in sé, non significa nulla: in quanto sostantivo che contempla innumerevoli declinazioni, è sovente abusato e frainteso, oltre che utilizzato fraudolentemente per indicare realtà che dell’ecovillaggio non hanno proprio nulla.Non è infrequente, infatti, che chi si accosta per la prima volta ad una esperienza ecovillaggista, veda andare deluse le proprie aspettative. In realtà quell’esperienza porta un insegnamento: non si tratta della realtà giusta, non è quella che vibra sintonicamente con le vibrazioni dell’aspirante ecovillaggista.
Ma c’è chi più o meno consapevolmente rema contro, anche ai piani alti: Confagricoltura, per esempio, che ha recentemente affermato l’opportunità di far tornare la natura nelle città. Peccato che la loro idea di natura in città coincida con variazioni sul tema del bosco verticale alla Boeri.
Nel frattempo il 10 marzo sono scaduti i bandi per la forestazione delle 14 città metropolitane e, palesemente, non è importato nulla a nessuno: sembra sia insostenibilmente faticoso riprogettare quote urbane secondo un concetto di rete ecologica.
Eppure, invece di vagheggiare l’improbabile trasloco di boschi in città, sarebbe semplicissimo onorare e rispettare natura e boschi lasciandoli dove si trovano, facendo manutenzione e riforestando dove si sono diradati. Niente, troppo poco costoso e quindi ininfluente ai fini dell’alimento del bisnèss e relative corruttele, oltre che non visibile per le archistar, che non possono proporre le loro costosissime puttanate, osannati da plebe ignorante e da amministratori in malafede.
La storia sociale ci insegna come le città, per quanto gradevoli possano essere, costituiscano inevitabilmente un modello artefatto, il risultato di un’antropizzazione contro natura. Non per caso fu nelle città, e nel loro malsano putridume, che si svilupparono i peggiori morbi letali.
Chi desidera avere la natura a portata di mano potrebbe, anzi dovrebbe, andare a ripopolare i numerosi borghi abbandonati dei quali è costellata la Penisola, recuperandone estetica, funzionalità e vita sociale, che sicuramente si svolgerebbe a ritmi ben diversi da quelli forsennati delle metropoli.
I due temi, ecovillaggio e giardino verticale, sembrano agli antipodi ma sono invece strettamente connessi: affronteremo quindi entrambi volo d’uccello.
Inizio con l’ecovillaggio, anzi con come non dovrebbe essere un ecovillaggio, riportando anonimamente la testimonianza di una persona che, l’estate scorsa, ha vissuto in un ecovillaggio da incubo:
«Molte persone sono interessate a conoscere come sia la vita in un ecovillaggio, voglio perciò raccontare la mia esperienza svoltasi nei mesi estivi in un ecovillaggio di montagna a circa 600 m di altitudine, che per correttezza non citerò.
Cercherò di essere più obiettivo possibile, ma so che sarà difficilissimo, e chiedo scusa in anticipo se sconfinerò in giudizi soggettivi e personali.
La struttura abitativa, non raggiungibile in auto, è una vecchia casa in pietra e legno, con annessi rustici, una stalla con alcuni animali, un deposito attrezzi, un pollaio, una conigliera, in mezzo ad un bosco e circondata da prati. Poco lontano c’è una fontana con l’acqua potabile che viene utilizzata per i fabbisogni domestici.
Quando ci sono stato io ci abitavano otto persone adulte, tra queste un paio di mamme con due bambini.
L’ecovillaggio tenta di strutturarsi per essere più possibile autonomo e autosufficiente, ma l’obiettivo è molto difficile da realizzare.
Non c’è elettricità e ovviamente non c’è internet, inoltre la copertura telefonica è assente: niente telefoni cellulari, computer, televisori, radio, aggeggi elettronici. Niente frigoriferi, lavatrici, ferri da stiro, frullatori, minipimer, spremiagrumi. Niente.
L’acqua corrente c’è, ma fredda. Era gelida d’estate, non oso pensare in inverno.
Ho chiesto come mai non abbiano pensato a pannelli fotovoltaici, ma mi è stato risposto che, oltre a non essere contemplati dalle loro esigenze, non hanno soldi, il tetto è messo male ed inoltre non saprebbero come trasportarli e come issarli sul tetto.
Riscaldamento solo mediante stufa a legna, in funzione tutto il giorno perché viene utilizzata per riscaldare e cucinare.
Un bagno in comune per 8 persone, piccolo e freddo, con una turca e un secchio per gettare l’acqua. Niente bidet, ma unicamente una vecchia vasca da bagno incrostata nella quale ci si fa il bagno una volta alla settimana, quando viene utilizzato un bollitore a legna per scaldare l’acqua.
In ogni caso ci si lava poco, e l’igiene credo sia l’ultimo dei pensieri.
I vestiti sono sempre i soliti, come detto non c’è lavatrice e ogni tanto vengono lavati alla fonte e stesi vicino alla stufa, assumendo così un vago aroma di fuliggine.
In ogni caso il colore predominante dei capi d’abbigliamento è il grigio-sporco, vuoi perché vengono lavati raramente, vuoi perché vengono utilizzati solo cenere o lisciva autoprodotti.
Il fabbisogno alimentare è assicurato da un orto e una serie di alberi da frutto, da alcuni animali d’allevamento. Nel periodo considerato c’erano una mucca con vitello, delle capre in un recinto, alcuni conigli in gabbia altrimenti avrebbero mangiato tutti gli ortaggi, galline lasciate libere, bellissime da vedere razzolare, ma che entravano dappertutto, anche sotto il porticato dove si mangiava lasciando i loro bisogni in giro.
C’erano alcune arnie, purtroppo vuote perché le api erano morte, ed alcuni cani, che spesso abbaiavano per ore durante la notte, e numerosi gatti malconci e poco in salute. Uno in particolare era molto malato, aveva gli occhi cisposi, pelo sporco, respirava malissimo e restava sempre accucciato sotto la tavola.
Ho chiesto loro se non fosse il caso di farlo vedere da un veterinario, e mi hanno guardato sbigottiti, come se avessi pronunciato un’eresia.
Le attività iniziavano la mattina molto presto, e c’era da fare tutto il giorno. Gli uomini facevano legna o portavano gli animali al pascolo, tagliavano il fieno per le bestie d’inverno, zappavano l’orto, eseguivano lavori di manutenzione, le donne preparavano il cibo, accudivano i figli, raccoglievano verdure nell’orto, lavavano il bucato.
I due bambini, un maschio e una femmina, erano piuttosto selvatici, sempre sporchi e poco curati, e intrattenevano con gli adulti relazioni poco rispettose: molte parolacce ed espressioni scurrili.
Giocavano nei boschi tutto il giorno, una cosa meravigliosa e molto wild, ma appena chiedevi loro un favore rispondevano male o facevano finta di niente.
I padri non ho ben capito né chi fossero né se facessero parte della comunità. Ho provato ad informarmi ma mi è stato risposto che non era importante chi fosse il padre, che loro erano madri autonome che senza un compagno vivevano benissimo e che la struttura familiare patriarcale era superata
(credo che il nostro ignoto autore avrebbe potuto risparmiarsi il giudizio sui bambini, assolutamente non funzionale alla descrizione delle caratteristiche dell’ecovillaggio. Non l’ho cassato per integrità informativa, pur essendomi formato l’opinione che i bambini costituiscano per il nostro un fastidio a prescindere, anche nella vita “civile”, e che probabilmente non sia genitore – Giudizio per giudizio, NdA).
Il cibo era poco vario e più o meno sempre lo stesso: zuppa di verdure con pezzi di carne, legumi, patate, uova, frutta fresca o secca, conserve di sottaceti, olive. Con buona pace per i vegetariani o vegani, mi chiedo cosa possano mangiare in un ecovillaggio come questo: solo frutta e verdura?
Ovviamente non essendoci né frigorifero né congelatore non si poteva conservare nulla, per cui si consumava tutto al momento e, in ogni caso, si mangiava assai poco, i pasti erano molto frugali e tutti erano abbastanza magri.
Nel periodo estivo, quando sono stato io, c’era molta frutta e verdura, l’orto produceva in abbondanza, ma mi sono domandato cosa mangiassero in inverno quando tutto era coperto dalla neve.
L’idea di fondo della comunità era la più completa autosufficienza, ma alcune cose erano impossibili da ottenere: la benzina per le varie motoseghe, per esempio, non si può produrre, e nemmeno l’olio per lubrificare la catena, e quella era una delle attività principali da fare, tutto l’anno, visto che la stufa andava 24 ore al giorno, e servivano quintali e quintali di legna, impossibile da fare con l’ascia e
addio rapporto idilliaco con la natura: rumore di motoseghe e odore di benzina tutto il giorno, oltre all’inquinamento che ne conseguiva.
L’alternativa sarebbe stata non scaldarsi, non fare da mangiare, non lavarsi una volta alla settimana con l’acqua calda.
Loro tentavano di tutto per non dover dipendere da fattori esterni: niente caffè, the, zucchero, raramente latte o formaggio, niente pasta o cereali, niente alcolici (ogni tanto spuntava qualche bottiglia di vino molto tannico, regalata da qualche contadino).
In compenso tanto fumo, di tabacco e di altro tipo.
La stanza destinata agli ospiti era un bellissimo sottotetto con pavimento in legno, accessibile tramite scala in legno, molto suggestivo e romantico, con una serie di materassi dall’aspetto poco igienico messi per terra, ma tant’è, ho sempre dormito nel mio sacco a pelo.
L’atmosfera generale, mi dispiace ammetterlo, non era di persone felici e soddisfatte, ma piuttosto di gente che voleva dimostrare ad ogni costo di potercela fare, ed anche le dinamiche tra di loro erano più improntate ad un rapporto di convivenza forzata piuttosto che di amicizia, e questo si rifletteva anche nelle conversazioni.
Lo so, il mio è un giudizio esterno, parziale e soggettivo, ma forse siamo noi che ci immaginiamo comunità ed ecovillaggi colmi di amore, felicità, benessere e serenità. E la serenità è proprio quella che non ho riscontrato in questo ecovillaggio.
Di fatto erano tutti troppo impegnati a procurarsi da che vivere, per poter creare armonia comunitaria, e alla sera erano tutti esausti e stanchissimi, tanto da andare a letto anche alle 9 o poco più. In ogni caso non c’era la luce, solo candele, e nemmeno TV o altri intrattenimenti
(Scusa, Ciccio, perché invece che in un ecovillaggio non sei andato a Ibiza? – NdA).
Perdonatemi se sono stato forse troppo critico e poco obiettivo, ma è difficile, a volte, mettere da parte il giudizio e mi rendo conto che, pur tentando di essere più aperto possibile, anch’io sono pieno di limiti personali.»

E questo è quanto e, concedetemelo, più che il giudizio potè il pregiudizio: spalare merda sulla faccia altrui per sentirsi migliori è una delle pratiche più imbecilli e frustranti che esistano, che denota che quanto a crescita interiore siamo ancora ai primordi. Io in un posto del genere non ci sarei mai andato, ed anche ove mi fossi reso conto di avere sbagliato tiro (cosa improbabile perché se questi non hanno internet e non sono sui social non è che puoi prenotare via airbnb ma solo via passaparola, non raccontiamoci palle) avrei semplicemente voltato i tacchi, arrivederci e grazie senza tante menate.
Ed ora passiamo al tema proposto da Confagricoltura: collegare architettura e natura valorizzando le risorse boschive. Mi riferisco, in particolare, ai concetti espressi nel webinar Architettura e Natura: bioedilizia, bioeconomia forestale, eco-design.
Premesso che “a partire dagli anni delle rivoluzioni industriali fino ad oggi, passando per gli anni del boom economico, la contrapposizione tra città e natura è diventata sempre più forte, segnando una vera e propria rottura tra le due parti” l’auspicio di Confagricoltura è che ora la contrapposizione possa cedere il passo al legame, portando la natura in città.
Boschi verticali e foreste urbane – Confagricoltura non accenna però a quelle commestibili – non devono essere intesi come ornamento ma anche e soprattutto come “moltiplicatori di biodiversità e sistemi di regolazione del clima e mitigazione della biosfera all’interno del sistema-città: non casette sugli alberi, ma vere e proprie case di alberi.”
Bella frase, suona bene, soprattutto messa per iscritto. Petrolini l’avrebbe ripetuta a tormentone come “più fulgida e bella che pria”.
Confagricoltura spezza una lancia a favore della filiera foresta-legno, indispensabile per la produzione di risorse naturali rinnovabili, caldeggiando l’impiego del prezioso materiale per mobili, carta, cartone oltre che per fini energetici, esaltandone altresì il ruolo nella bioedilizia, con soluzioni che integrino design, sostenibilità e tecnologia per adeguare abitazioni e spazi all’aperto a nuove esigenze di multifunzionalità.
Il ruolo della silvicoltura, a partire dalla gestione attiva dei boschi considerati finalmente come risorsa essenziale per la collettività ed anche rilevanti economicamente per le filiere agro-forestali, dovrà essere strategico
Ricordo che la filiera foresta-legno conta circa 80mila imprese, per oltre 500mila unità lavorative occupate e, con un saldo commerciale positivo di più di 40 miliardi di euro, è il secondo settore produttivo dell’industria manifatturiera nazionale.
Insomma, due posizioni estreme: da una parte i duri e puri dell’ecosostenibilità militante, dall’altra il boschetto delle fate che si arrampica su, come ebbe a dire un architetto mia amica, palazzi di lattuga per camuffare architetture pessime con quattro spelucchi rampicanti.
I termini ecovillaggio ed architettura sostenibile hanno una cosa in comune: non significano nulla, sono solo esercizi verbali e cadfilosofici per frustrati e furboni, e credere che piantare arbusti per migliorare la qualità dell’aria è da illusi.
Disponiamo, fortunatamente, di migliaia di km2 di riserve naturali e sarebbe sufficiente tutelare in modo concreto ciò che già abbiamo, realizzare parchi urbani e curare quelli esistenti, curando parallelamente il recupero delle centinaia di magnifici borghi immersi nel verde.
In realtà i borghi sarebbero migliaia, ma molti insistono su aree logisticamente improponibili, prive di efficienti vie di comunicazione, soggette a smottamenti e terremoti, problematiche per l’approvigionamento idrico. Mi limito quindi ad immaginare il recupero di quelli che, concretamente, sarebbe possibile riabitare. Con un’avvertenza per l’uso: scordarsi aiuti pubblici, contributi agevolati o finanziamenti bancari a meno che non si desideri l’avventura di un percorso di guerra.
Le istituzioni favoriscono a parole il recupero dei borghi abbandonati, l’incentivazione dell’agricoltura per giovani imprenditori perché porta consenso ma, alla prova dei fatti, disseminano il percorso di trappole esplosive: nell’ultimo decennio non si contano i bagni di sangue dei quali sono state vittime giovani imprenditori agrosilvopastorali, spesso laureati all’Unimont ed in altre prestigiose università.
Perché, mettiamocelo in testa, senza il sostegno di una tradizione di famiglia imprenditori agricoli non ci si improvvisa. Esattamente come non si può pensare di vivere allo stato brado nei boschi come trogloditi.
Concludo con le linee guida, una su tutte: anni di esperienza in materia mi hanno indotto a ritenere vincenti due scelte, antitetiche fra loro.
La prima consiste nell’incontrarsi fra amici con i quali si intrattengono rapporti consolidati, stabilire che si intende cambiare vita, verificare il più possibile la solidità dell’intento, stabilire il quantum in senso finanziario, definire l’area di ricerca e le caratteristiche di massima di terreno e fabbricati ed iniziare la ricerca. Ogni passaggio, ogni casale, cascina, podere, borgo esaminato costituirà inoltre un passo in più verso la reciproca conoscenza, prova ne sia che alcuni abbandoneranno ancora prima di iniziare. Da cosa nasce cosa, forse, e se agli auspici seguiranno i fatti si giungerà presto ad una conclusione concreta: acquisto, ristrutturazione, definizione degli aspetti energetici e termici, impianto di nuove specie arboree e recupero di quelle esistenti, creazione di uno spazio orticolo.
La seconda consiste nell’individuare una realtà in possesso dei requisiti adatti, progettarne il recupero, stilare una relazione di fattibilità e proporne l’acquisto a terzi, perfetti sconosciuti individuati mediante annunci. Spesso danno più soddisfazione gli sconosciuti rispetto ad amicizie che si credevano consolidate.
Il tutto procede esattamente come una qualsiasi operazione immobiliare: acconto alla prenotazione, acconti a stato di avanzamento lavori, limitate facoltà di personalizzazione rispetto al capitolato, acquisto finale e frazionamento. Il resto sono dettagli gia visti sopra e comunque già oggetto del progetto.
La terza ipotesi, assolutamente nefasta e adatta per intellettualoidi allo spritz, va da sé sinistrensi, consiste nell’illudersi che una promozione su un social, in un gas o in una qualsiasi realtà considerata ricettiva possa sortire esiti che non siano la vuota chiacchiera e la conseguente noia.
È nella connaturato all’umano, che vuole chi tiri il carretto, o almeno la volata, per poi aggregarsi, se del caso con qualche mugugno d’ordinanza camuffato da proposta, che non inficia nulla e va lasciato liberamente eiaculare. E poi si continua imperterriti a fare ciò che già si è deciso. Namasté.
Sotto il profilo energetico l’eolico, che non può essere installato ovunque, è quanto di meno ecosostenibile possa esistere: è un mostro che deturpa il paesaggio, rende nella migliore delle ipotesi il 35 per cento della capacità nominale ed è causa di sconvolgimento del microclima locale e della moria di volatili che incappano nelle pale.
Chi desidera l’autosufficienza elettrica può ricorrere al fotovoltaico, meglio se ad accumulo, tenendo presente che i tetti degli edifici, oltre a venirne sminuiti sotto il profilo estetico, non presentano una superficie sufficiente a garantire il fabbisogno domestico e lavorativo. È quindi necessario dedicare un’area soleggiata di superficie opportuna. All’occorrenza l’impianto può essere integrato dalla rete pubblica. Ovviamente, parlando di ecovillaggio dovrebbero essere banditi i condizionatori.
Per il riscaldamento è possibile ricorrere al metano, all’occorrenza autoprodotto mediante fermentazione aerobica in lagunaggio per usi di cucina e per l’acqua calda sanitaria grazie alle deiezioni animali, allo stallatico, agli scarti domestici, agli sfalci dell’orto. Naturalmente occorre una massa di portata adeguata, magari ricorrendo con le opportune prescrizioni di legge, al conferimento da parte dei vicini. Una volta all’anno il laghetto del lagunaggio va drenato e la morchia di risulta, essiccata, costituisce un ottimo concime.
Ove non vi sia un quantitativo sufficiente di capi di bestiame è possibile ricorrere alla semplice soluzione del butano nel cosiddetto bombolone posizionato all’esterno per usi di cucina, acqua calda sanitaria e riscaldamento.
Altra valida soluzione è il geotermico, da usare con attenzione dopo aver sondato attentamente, per quanto possibile, la natura del sottosuolo e delle sue cavità, specialmente se l’ecovillaggio trovasi in zona a rischio sismico, vale a dire quasi tutta la Penisola, specialmente sui crinali appenninici.
Il geotermico costa poco in esercizio ma molto in installazione: un impianto a pompa di calore dimensionato per il riscaldamento di una superficie di 300 m2 non costa meno di 45mila euro, può però beneficiare del contributo al 65%.
Tendo a escludere il pellet, a meno che non si sappia con cosa viene prodotto ed in ogni caso la resa non è superiore a 5 kWh/kg. Stesso discorso per la legna, che ha normalmente una resa inferiore a quella del pellet: bello e d’effetto vedere scoppiettare i ciocchi nel camino, conviviale cuocere pizze o grigliate ma deve finire lì, altrimenti il bosco del nostro ecovillaggio ben presto se ne andrebbe in legna da ardere, fermo restando che ci si troverebbe in men che non si dica i forestali in casa.
Quanto alle modalità di distribuzione non mi soffermo: sono un fautore del sottopavimento ma ciascuno ha le proprie preferenze.
L’acqua piovana può essere raccolta in apposita cisterna centrale munita di adduttori periferici ed essere utilizzata per l’orto, oltre che per raffrescare gli edifici abitativi facendola correre in apposite tubazioni inserite nelle pareti.
Le stesse pareti – le necessità di recuperi e ristrutturazioni non mancheranno – possono essere realizzate con materiali ad elevata tenuta termica, in modo da risparmiare il più possibile sul riscaldamento. Paglia e terra cruda costituiscono un ottimo materiale, insieme con il legno. Fondamentale, in ogni caso, il ricorso ai materiali locali.
Gli accorgimenti per ottimizzare la tenuta termica sono numerosi, bisogna però fare attenzione alle normative vigenti che, spesso, sembrano studiate apposta per mettere i bastoni fra le ruote. E questo vale per ogni aspetto o materiale afferente il recupero.
A questo punto l’esperienza mi suggerisce di fare, nel rispetto di quelli che abbiamo stabilito essere i nostri parametri di ecosostenibilità e delle normative generali vigenti, meglio se previo consulto con il tecnico comunale e con esperti professionisti locali ed in ossequio, nella misura del possibile e del buon senso, al progetto approvato.
Contateci: arriverà, prima o poi, qualcuno a rilevare delle irregolarità e ad elevare opportuno verbale. A quel punto si fa ricorso, e si sa che i ricorsi vanno avanti anni, fino a quando l’inevitabile sanatoria, condono tombale o altra norma inventata per incassare quattrini ci riporterà fra i buoni. Spesso costa meno il condono rispetto agli oneri originari, ma non è quella la questione: la questione è che sul mio devo poter essere libero di fare quello che meglio credo, nel rispetto della natura e della sicurezza. Se la cosiddetta autorità mi impedisce di vivere, ed in campagna e in montagna è così, recuperando edifici rustici con norme di fatto inapplicabili io ho il dovere di ribellarmi. Usando le stesse armi dell’oppressore.
Il mio ecovillaggio ideale, infine, deve essere non solo connesso ma presentare soluzioni ammissibili alla legge 232/2016, la cosiddetta impresa 4.0, per esempio nel ciclo della produzione casearia e della trasformazione agroalimemtare. Escludo ovviamente le mungiture, altrimenti ricadiamo nelle stalle lager, certamente indegne di un ecovillaggio.
Per finire: per impiantare un ecovillaggio occorrono soldi, sono finiti i tempi dell’okkupazione, che per quanto mi consta non sono mai esistiti.
Fondamentale infine la statuizione delle modalità decisionali e la ripartizione delle spese di gestione e dei compiti: chi fa che cosa e con quali punti di verifica, nonché la definizione, che deve avvenire già in sede di progetto, delle attività da svolgersi per il sostentamento.
Intendiamoci: wild fino ad un certo punto, almeno per come la vedo io, e senza pensare di poter lasciar perdere qualsiasi attività lavorativa esterna, almeno nei primi anni. E ciascuna persona o nucleo familiare deve avere un proprio spazio privato, che non sia una stanza, ma l’equivalente di un appartamento dove, all’occorrenza, potersi isolare e tenere proprie cose personali. Vi saranno ovviamente spazi comuni, lavorativi e ludici, lavanderie, magazzini.
Per non tediare con cose già scritte rimando a Sì all’ecovillaggio, no al pauperismo pubblicato su queste pagine il 20 dicembre 2020 e dal quale traggo l’incipit: “Neppure questa volta abdico al mio stile tranchant, chiaro e diretto: vivere in un ecovillaggio non salva dalla fame, da un’economia di sussistenza, da rinunce che possono essere vissute in modo doloroso a meno che non si sia dei fautori di un pauperismo francescano.
Ed anche in quel caso, se il pauperismo è stato immaginato in salotto piuttosto che in un cerchio di condivisione o in parrocchia, e vissuto nel corso di qualche ritiro spirituale, il contatto con la realtà può essere traumatico.
Non vedo, in ogni caso, perché perseguire l’ecosotenibilità o vivere in un ecovillaggio debbano esporre a giorni miserevoli, credo anzi che con gli opportuni accorgimenti si possa vivere bene, addirittura agiatamente.
Dipende da che cosa si coltiva, alleva, produce, trasforma e da come lo si fa, oltre che dai plus che si è in grado di offrire agli ospiti in materia di produzioni di nicchia, consulenze, benessere fisico e spirituale.
Non mi dilungo: chi mi segue ha oltre 600 articoli scritti in sette anni sui miei vari blog e siti … per sapere come la penso e per conoscere svariate tecniche di approccio, realizzazione di una residenza condivisa in città ed in natura.
Vivere in una residenza condivisa, in campagna o in montagna, costituisce comunque un valido mezzo per contrastare i tanto opprimenti quanto odiosi controlli di polizia, oltre che la frequentazione, ed anche solo la visione, di polli in batteria in forma di maccheinomani detti anche mask addicted.
Appare evidente come le maggiori aree di disagio coincidano con le grandi città: a Bari,Napoli, MIlano, Roma o Torino la qualità della vita non sarà mai, né è mai stata, quella di Rimini, Orvieto, Parma o Treviso.”

Per approfondimenti ritengo altresì utile la lettura di Scomparire: autosostenibilità, punto di arrivo pubblicato su Decumanus il 28 aprile 2020 e di È tempo di ecovillaggio anch’esso pubblicato su Decumanus il 7 dicembre 2020.


Alberto Cazzoli Steiner