Valsusa, se il nemico è in casa

La notizia è offuscata dall’ossessione compulsiva per tamponi, vaccini, morti, guariti e intanto Giovanna Saraceno, pisana 36enne presente in Valle Susa sin dal 2005 per sostenere la lotta NoTav, è ricoverata alle Molinette di Torino con frattura orbitale dell’occhio destro e due emorragie cerebrali, dopo che un lacrimogeno l’ha colpita al volto.
L’episodio è gravissimo poiché non costituisce un evento criminale isolato bensì la conseguenza di un crescendo di violenze che sempre più paiono finalizzate alla ricerca del morto. Detto di passaggio: gli sbirri utilizzano lacrimogeni al CS, più volte vietati dalle varie convenzioni internazionali.
Giusto per farlo sapere al popolo delle frigne, a chi cerca i ristori, l’elemosina di stato, a chi si prostra agli aguzzini diventando egli stesso sbirro delatore, a chi recita la farsa della museruola all’aperto e della distanza sociale, che è come farsi una sega con le mani legate dietro la schiena: fatevi un giro in Valle Susa, dove da vent’anni la gente viene arrestata per nulla, manganellata, ferita, uccisa. Altro che amaccheina.
E questo semplicemente perché non vuole che la propria terra, la propria casa, la propria vita, la propria salute siano devastate da un’opera inutile, antieconomica destinata a violare irrimediabilmente l’ambiente e, come si è saputo alcuni anni fa, a seppellire rifiuti tossici nel ventre della montagna come è costume delle mafie delle grandi opere. Pozzuolo Martesana, che era una tavola da biliardo ed ora è una collinetta, con gli sbvancamenti della BreBeMi docet.
Anche se l’orazione funebre per la Tav Torino-Lyon è già stata pronunciata per insostenibilità di costi e di trasffici, la valle rimane militarizzata all’inverosimile perché la gente, già acerrima oppositrice della ferrovia ad alta velocità, non vuole che si costruisca un nuovo autoporto a San Didero: in valle ne esiste già uno, fortemente sottoutilizzato in ragione dell’ormai scarsissimo traffico merci. L’unica che ne trarrebbe vantaggio è l’allegra confraternita del cemento, che rispetto al devastante danno ecologico ha l’atteggiamento di Rhett Butler in Via col vento: francamente, se ne infischia.
E intanto nel territorio di San Didero e degli altri paesi e villaggi polizia, carabinieri e militari impediscono persino lo svolgersi delle normali incombenze quotidiane: andare al lavoro, fare la spesa, attraversare la strada. Nemmeno a Belfast.
I valsusini, dai quali credo che gli italilandesi dei proclami su feisbuc avrebbero molto da imparare, hanno ben presente come resistere significhi sempre più lottare per sopravvivere, e un video pubblicato sulla pagina Facebook del Movimento NoTav mostra con chiarezza come le cosiddette forze dell’ordine, con il favore delle tenebre, sparino per colpire le persone.
La violenza perpetrata dagli sbirri ogni volta che la popolazione valsusina si oppone ai cantieri dell’alta velocità ed alle opere collaterali è sempre più inaccettabile, specialmente ora che cittadini e amministratori pubblici sono in mobilitazione permanente per opporsi alle operazioni propedeutiche alla costruzione del nuovo autoporto, cantiere collaterale del progetto ormai monco della ferrovia ed ecomostro irrazionale rispetto alle sue funzioni dichiarate, foriero di un impatto ambientale pesante e permanente sugli abitanti.
Va detto che, caso unico nella storia della Penisola, nella storia giudiziaria del movimento NoTav non mancano esempi di sovradimensionamento dei reati, come nel caso del cosiddetto “processo del compressore”, che nel 2013 vide quattro militanti accusati di terrorismo a fronte del danneggiamento di un mezzo di cantiere, piuttosto che nel “processo del casello” riferito ai fatti del 3 marzo 2012, quando trecento manifestanti occuparono per trenta minuti il casello dell’autostrada di Avigliana alzando la sbarra per permettere agli automobilisti di uscire senza pagare il pedaggio, mentre volantinaggio e speakeraggio spiegavano le motivazioni della protesta.
La manifestazione al casello si concluse senza incidenti o contatti con le forze di polizia, e il danno alla Sitaf, Società di gestione autostradale, per mancati introiti venne quantificato in soli 777 euro.
E veniamo ai nostri giorni: la sera di lunedì 12 aprile, in pieno coprifuoco, oltre 1000 agenti antisommossa con idranti e lacrimogeni scortavano le ruspe fino ai terreni dell’ex autoporto di San Didero, caricando il presidio NoTav che da mesi occupa l’area boschiva.
Da allora in questa parte della Valsusa vige l’ennesimo stato d’assedio, con una massiccia presenza poliziesca in questi giorni distintasi per le cariche sui manifestanti, l’uso dei gas fin dentro i paesi, l’incendio dell’auto di un’attivista, lo spargimento nei campi di cartucce di lacrimogeni inesplose, lo schieramento di truppe per impedire l’apertura dei mercati cittadini.
Il movimento NoTav ha risposto con migliaia di persone unite in un corteo contro questa ulteriore aggressione. Ma la guerra continua.


Alberto Cazzoli Steiner

Il costo ambientale di una bibita in lattina

È evidente che non bevo una Guinness in lattina almeno dal 1989.
Perché sia evidente è presto detto: al supermercato ho fatto inavvertitamente cadere alcune lattine della scura di St. James Gate, udendo un tonfo strano. Raccolgo le lattine con l’intento di rimetterle nello scaffale, anzi di acquistarle visto che la caduta le aveva ammaccate, e, scuotendole, percepisco l’inconfondibile rumore di un oggetto all’interno.
Considero diverse ipotesi: un pezzo di dentiera di un operaio, caduto accidentalmente nella nera mistura, un animale morto, Unabomber che è tornato a colpire… impugno e scuoto altre lattine, stesso rumore soffocato. Propendendo quindi per una sorpresa tipo Kinder non mi resta che appagare la mia curiosità: googlando scopro invece che … dal 1989 nelle lattine si trova una pallina di plastica del diametro di circa due centimetri provvista di un foro del diametro di 0,61 mm, che viene chiamata agente schiumificante proprio perché ha il compito di mettere in movimento le molecole di carbo-azoto che formano la famosa schiuma setosa della birra.Cito dal sito Everything2, dal quale ho tratto la spiegazione: “La birra viene versata nella lattina insieme all’azoto e all’anidride carbonica e, durante il processo di pastorizzazione, l’azoto in soluzione si trasforma in gas aumentando di circa due atmosfere la pressione interna della lattina, costringendo la birra ad entrare nella pallina.
Quando il consumatore apre la birra, avviene la decompressione del contenuto e l’azoto contenuto nello schiumificante si espande proiettando un getto di birra attraverso il foro e, fuoriuscendo dalla soluzione crea uno strato di schiuma simile a quello presente nelle birre dei pub.”
All’apertura della lattina si percepisce nettamente un sibilo da decompressione, ed il liquido affiora al boccaporto con una certa veemenza, in ogni caso non sufficiente perché la birra trabocchi.
Tutto questo è molto interessante, e mi ha fatto ricordare perché da almeno 22 anni non bevo una Guinness: perché non mi piace. Ed ora, con la pallina di plastica, mi piace ancora meno.Se è vero che, a livello mondiale, l’87 per cento delle lattine di bevande viene abbandonato ovunque e non conferito alla raccolta differenziata, la durata pressoché eterna della pallina costituisce un problema nel problema.
Purtroppo è un dato di fatto: ogni minuto vengono gettati milioni di lattine, che non inquinano solamente con la loro presenza e la cui biodegradabilità è misurabile in millenni, ma pur assommando il loro valore intrinseco pochi centesimi, hanno costituito un costo notevolissimo in termini di impiego di risorse all’atto della loro realizzazione.
Tutte le chiacchiere sullo sviluppo sostenibile, che è un bell’ossimoro, sulla decrescita felice e sulla resilienza, non si sa di cosa rispetto a che, si scontrano con l’argomento lattine che, poiché la produzione del loro contenuto è saldamente in mano a colossi che in determinati luoghi non pagano nemmeno l’acqua, viene semplicemente ignorato.
Proviamo a non pensare al prezzo irrisorio che paghiamo per una lattina di Coca piuttosto che di Monster, birra e via numerando ma a parametrarne il costo sostenuto dall’ambiente.
Iniziamo da una miniera di bauxite, attiva 24 ore al giorno: ne ho trovato una in Tasmania, che si vanta di usare torce ecofriendly e di dare lavoro a trenta persone. Per chi non lo sapesse la Tasmania è in Australia e, dopo essere stata chimicamente ridotta e purificata a freddo e a caldo utilizzando una tonnellata di ossido di alluminio per ogni due tonnellate di estratto, la bauxite viene inviata, con un viaggio via mare della durata di un mese, presso aziende specializzate svedesi e norvegesi dove verrà ridotta in billette, o lingotti, che verranno successivamente laminati a caldo sino allo spessore di 3 millimetri ad una temperatura di 500 gradi centigradi, e trasformati in fogli stoccati in rotoli.
Le bobine vengono caricate su un camion e trasferite presso un laminatoio a freddo, dove assumono lo spessore definitivo di 0,3 mm.
I film così ottenuti vengono inviati in ogni parte del mondo ove vi siano stabilimenti per la produzione di bibite in lattina, per essere punzonati, fustellati, piegati e trasformati in lattine.
Queste vengono ripulite dagli sfridi del processo, lavate, sgrassate e laccate e flangiate per la successiva apposizione del coperchio. Vengono infine verniciate e spruzzate internamente con un film protettivo per evitare che certe bevande possano corrodere il metallo.
A questo punto le lattine possono essere pallettizzate e stoccate per l’utilizzo al momento del bisogno, una volta inviate all’imbottigliamento, dove vengono nuovamente lavate ed infine riempite del contenuto.
Una curiosità sul fosforo presente in una certa bibita addizionata con caffeina, la più bevuta al mondo e che costiuisce una vera bomba glicemica: viene prevalentemente estratto negli Stati Uniti, in miniere a cielo aperto attive senza soluzione di continuità, e che sono vere bolge infernali dove lavorano solo latinos ed orientali. Il processo di estrazione porta alla luce anche cadmio e torio radioattivo.
Le lattine riempite vengono sigillate con il coperchio di alluminio, quello che con l’anello di apetura e che in gergo si chiama pop-top, al ritmo di millecinquecento al minuto, ed introdotte nei cartoni stampati delle confezioni, caricate sui pallet ed inviate ad un distributore locale che provvedere alla consegna ai punti di vendita.
I cartoni sono realizzati con pasta di legno, generalmente tratta dalle foreste della Svezia, della Siberia o della British Columbia, e le statistiche ci dicono che, una volta entrata in un supermercato, una lattina viene venduta entro tre giorni, consumata entro due e consegiuentemente buttata.
Morale: la nostra lattina di birra, o della bibita costituita da acqua zuccherata fosfatata, addizionata di caffeina ed al sapore di caramello, costituisce l’88% dei rifiuti di alluminio, difficilmente riciclabile proprio perché buttato per ogni dove.
Le aziende sono quindi costrette, dal tritacarne di consumi sempre più dissennati, inutili e massicci, a ricavare i tre quinti dell’alluminio dal minerale vergine, con dispendio energetico 25 volte superiore a quello del riciclo.
Noi non ce ne rendiamo conto, ma la produzione di un qualsiasi oggetto costa, in termini energetici, dalle 10 alle 100mila volte il suo peso. Per fare due esempi: fabbricare una tonnellata di carta richiede l’utilizzo di 98 tonnellate di risorse, comprese quelle idriche, produrre un litro di succo d’arancia costa l’equivalente di tre litri di idrocarburi e di mille di acqua.

Alberto Cazzoli Steiner