Ed uscimmo infine a riveder i volantini

Volantinaggio GdF Bz 001“È la più grossa operazione mai condotta nel Norditalia” affermò il colonnello Gabriele Procucci, comandante della Guardia di Finanza di Bolzano, nella conferenza stampa che annunciava, nella primavera del 2019, l’esito di un lungo e difficile lavoro condotto contro la mafia del volantinaggio, rammaricandosi però che fosse solo la punta dell’iceberg di un sistema ampio e articolato che contamina diversi settori.
Sembra quanto meno stravagante parlare di volantinaggio mentre l’attenzione di tutti è focalizzata sul virus che, prima ancora dei corpi, ha contaminato le menti, ma noi ci riteniamo, fortunatamente, stravaganti e fuori dal coro e pensiamo che certi registi dell’ecomomia non riununceranno facilmente a lauti guadagni.
È anche per tale ragione che siamo convinti che, adottando metodi di disingaggio gesuitici per non sputtanarsi completamente, almeno agli occhi degli imbecilli, ahinoi oltremodo numerosi come stanno dimostrando le odierne cronache, che ancora credono che la luna sia una forma di parmigiano, che presto la morsa dei domiciliari avrà termine.
La gente continuerà a morire, come è giusto che sia durante un’epidemia, sarà anche loro dovere e nostra fonte di salvezza, ma l’economia ripartirà e la fiducia, l’impegno, un progressivo ritrovato benessere eleveranno gli anticorpi in chi sarà destinato a sopravvivere.
Del resto in un non-paese di pecoroni l’immunità di gregge ci sembra cosa buona e giusta.
In riferimento ai registi dell’economia, in un non-paese dove la Mafia è eletta a sistema il volantinaggio è l’anima della pubblicità, e il caporalato è l’anima del volantinaggio.
Pertanto chi sopravvivrà vedrà nuovamente intasata la propria casella postale o l’apposito contenitore condominiale di pacchi di volantini, testimoni di un giro d’affari prossimo ai 270 milioni di euro annui.Volantinaggio GdF Bz 002Un mezzo di comunicazione pubblicitaria che si tende a considerare adatto a case popolari, anziani, sottoacculturati e che invece è l’unico mezzo sul quale si regge il sistema della GDO, Grande Distribuzione Organizzata, e segnatamente supermercati, centri commerciali, market dedicati al faidate, che da sola rappresenta il 74 per cento del fatturato di stampatori e distributori.
Coloro che materialmente distribuiscono i volantini sono prevalentemente singoli o con legami familiari nel paese di origine, subiscono condizioni di vita penalizzanti, vivono spesso senza fissa dimora in condizioni igienico-sanitarie precarie in cascine abbandonate messe a disposizione dal caporale di turno, e per le quali pagano un affitto, lavorando mediamente 12 ore al giorno con punte di 15 per 2,50 euro all’ora, reclutati e spostati alla stregua di pacchi in varie zone a seconda dei servizi di distribuzione che devono essere effettuati.
Scaricati alle prime luci dell’alba da anonimi furgoncini in vari punti delle nostre città, provengono da Algeria, Burkina Faso, Gambia, Guinea, India, Pakistan, Senegal e da numerose altre aree del disagio, costretti a sottostare a ricatti e condizioni di vera e propria schiavitù in ragione del bisogno di guadagnare qualcosa al fine di sostenersi e mandare a casa qualche soldo.
Prima del fermo immagine causa virus non passava mese senza che, soprattutto nel profondo Nord, qualche caso di sfruttamento guadagnasse la ribalta della stampa locale. Segno di un radicamento nelle modalità di inquadramento dei lavoratori addetti al volantinaggio fatto in spregio alle più elementari norme, in un mondo prevalentemente governato da organizzazioni criminali con la consulenza dei soliti colletti bianchi senza scrupoli.
Le organizzazioni attuano la sorveglianza degli spostamenti e delle consegne mediante GPS applicati a biciclette sostanzialmente sgangherate ed insicure o carrelli portavaligie e, come evidenziato dall’indagine della GdF citata in apertura, coordinata dalla Procura di Vicenza, senza che il lavoratori ne fossero a conoscenza.
La minaccia di essere licenziati o malmenati, con ritorsioni estese alle famiglie in patria, qualora i lavoratori si dovessero anche solo sognare di denunciare alle forze dell’ordine i soprusi è una costante.
Molti vengono assoldati attraverso trafficanti internazionali, pagando mediamente 5.000 euro per arrivare, con la rassicurazione che i guadagni assommeranno almeno a 1.000-1.500 euro al mese con contratti regolari e che l’organizzazione si darà da fare per far arrivare anche i familiari.
I guadagni ammontano invece a 600-650 euro, nella migliore delle ipotesi e sempre e solo in nero, dai quali va detratto l’affitto e, allorché qualcuno si permette di ricordare ai datori di lavoro le promesse fatte viene minacciato di essere denunciato alle autorità e rispedito a casa, un gioco da ragazzi per i caporali che, come primo atto della riduzione in schiavitù, sequestrano i documenti dei malcapitati. Che, se insistono, vengono anche pestati.
Secondo Flai-Cgil sarebbero oltre 400mila le persone ingaggiate sotto caporalato, e di questi oltre 130mila si troverebbero in uno stato di grave vulnerabilità sociale.
Chi dovesse chiedere agli attori della GDO come funzioni la distribuzione dei propri materiali pubblicitari si sentirebbe rispondere che il servizio è affidato a società che offrono un pacchetto tutto incluso e che loro sono assolutamente all’oscuro di fenomeni di sfruttamento o schiavitù.
Il sistema si basa su appalti e concessioni che si susseguono, iniziando con il committente (il marchio della GDO che vuole distribuire il proprio materiale pubblicitario) che affida l’incarico ad una azienda, che a propria volta la affida ad un’altra azienda, e questa ad un’altra generando un sistema di passaggi di consegne.
Accade anche che il servizio termini con la ritardata consegna del materiale pubblicitario, fuori termini per le campagne promozionali indicate. O con la sua distruzione.
Una curiosità: da tempo, e particolarmente in queste settimane, molti lavoratori del settore sono confluiti in quello delle consegne di cibo a domicilio.

Alberto Cazzoli Steiner

L’agricoltura è al collasso

CSE 20200327 Agricoltura collassoMolti moriranno, è nell’ordine delle cose, e ben lo sapeva l’actuarius, ufficiale Romano addetto agli approvvigionamenti che calcolava i fabbisogni di coorti e legioni in base a ciò che si sarebbe saccheggiato nelle terre conquistate ed in base ai morti lasciati lungo l’avanzata.
Dalla figura dell’actuarius prese nome il cosiddetto calcolo attuariale, quello utilizzato dalle compagnie di assicurazioni allorché, su basi sempre più scientifiche, stimano le probabilità di vita e di morte degli assicurati.
Ritengo altamente improbabile che si esca dai domiciliari con un nuovo paradigma: chi non ha compreso nulla finora è ben difficile – al di là dei fervorini dei guru del web che tirano l’acqua al loro mulino che macina pubblicazioni, corsi, seminari, webinar, che in ogni caso la massa non legge – che possa aver maturato una qualsiasi forma di consapevolezza in un mese.
Solo chi era consapevole prima lo sarà ancor più dopo questa esperienza: 90/10. Lo scrissi nell’ormai lontano 2013, e mi dissero che avrei dovuto osservarmi, che disprezzavo gli altri per elevarmi, che le mie ferite erano ancora aperte e tutte le solite minchiate che costellano il campionario spiritual-newage. Bene, lo ribadisco proprio quieora, con la mia mente che a me non mente: 90/10. Anzi, 90/5.
Non appena le stalle riapriranno i bovini si riverseranno in strade, fast-food, pub, slot, negozi di telefonini, si incazzeranno gli uni con gli altri, riprenderanno stupri ed altri reati commessi da immigrati, solo da immigrati. Oltre ai peana sulla todesca e sul franzoso, sull’Europa cattivona e sul complotto che ci esclude e non ci assegna per atto dovuto, per il fatto stesso che esistiamo, sulle scie chimiche e via lamentando.
Stando così le cose è meglio uscire, ora, dalle tane e produrre, e a chi tocca tocca. Meglio pochi che tutti, perché diversamente il rischio è la fame.
Già ci sono stati due segnali ieri: il sequestro, in Puglia, dell’autoarticolato che trasportava derrate e, per quanto forse pilotato, il tentativo di saccheggio di un supermercato a Palermo. Fine della premessa.
Ed ora passiamo all’antefatto: la filiera agroalimentare, nella sua accezione estesa dai campi agli scaffali e alla ristorazione è diventata nel 2019, secondo Coldiretti, la prima ricchezza della penisola occupando 3,8 milioni di addetti e raggiungendo la più che ragguardevole cifra di 538 miliardi di euro di fatturato, 44 dei quali dovuti al record storico delle esportazioni.
L’enogastronomia rappresenta inoltre un volano per il turismo, armoniosamente interconnessa com’è con un paesaggio certamente antropizzato ma segnato da colline solcate da vigneti e da ulivi secolari, da casali in pianura e malghe in montagna, da pascoli e terrazzamenti che contribuiscono a contrastare il dissesto idrogeologico.
I dati Istat pubblicati il 23 dicembre 2019 riferiscono che nel 2017 le imprese agricole erano 413mila, e quelli pubblicati il 13 novembre 2019 riferiscono che nel 2018 le aziende agrituristiche erano 23.615, con un incremento percentuale dello 0,9% sull’anno precedente.
Tutto questo rischia di scomparire.
Il comparto agrosilvopastorale è entrato in una crisi profondissima dalla quale, perdurando le, a mio avviso, dissennate misure governative per il contrasto all’epidemia di influenza sempre più rivestita da golpe, non si risolleverà.
Il settore lattiero-caseario è in coma profondo, quello florovivaistico, massimamente rappresentato nel Nord e che tra marzo e maggio concentra il 90% del suo fatturato, è al collasso.
Il comparto, che vale 2,5 miliardi di euro, si estende su circa 30mila ettari e rappresenta il 5% della produzione agricola totale, contando 23mila aziende e 100mila addetti.
L’AFI, Associazione Florovivaisti Italiani, ha chiesto al governo un’attenta riflessione sulle ripercussioni di ulteriori restrizioni per tutta la filiera della produzione di fiori recisi e piante in vaso: “La questione sanitaria è di primaria importanza per il Paese” ha dichiarato il presidente dell’associazione, Aldo Alberto, specificando come le aziende si siano dimostrate responsabili, tutelando con strumenti di protezione individuale tutti i dipendenti ed aggiungendo: “Riteniamo, tuttavia, necessario che le istituzioni, prima di prendere qualsiasi provvedimento, pongano attenzione agli effetti di una chiusura totale delle regioni del Nord per il settore florovivaistico, che per sua specificità ha una stagionalità molto breve e concentra quasi il 90% del suo fatturato fra i mesi di marzo e maggio.”
Il blocco del Nord, massimo bacino di utenza per il comparto, porterebbe al collasso tutta la produzione, e, conseguentemente, anche una crisi del sistema bancario che finanzia la quasi totalità degli investimenti nel settore.
L’altro settore allo sbando è quello delle orticole, inspiegabilmente lasciate fuori dal segmento del food e la cui mancanza di lavoratori stagionali, bloccati alle frontiere dal governo nazionale nella misura di circa 100mila unità, ha compromesso la raccolta di asparagi e fragole. Poi toccherà a nespole, albicocche, ciliegie.
Significativa la testimonianza di un’azienda del Veronese: “Abbiamo già buttato al macero migliaia di piante di insalata e cavoli e se continua così perderemo il 70 per cento del fatturato della stagione.”
Sono milioni le piante di lattuga, cipolle e cavoli buttate. E la stessa fine, se non si cambia registro, faranno pomodori, cetrioli, melanzane e tutte le verdure che si trapiantano verso Pasqua. Per i produttori di orticole il mese di marzo è andato in fumo e ora si teme per aprile, in caso le misure restrittive decise dal governo dovessero protrarsi.
“Abbiamo le serre piene di piantine di zucchine, insalata, pomodori, zucca, anguria” riferisce Amedeo Castagnedi, referente veronese di Cia Agricoltori italiani, aggiungendo: “Lavoriamo con garden, mercati e ambulanti e il prodotto va a chi si fa l’orto: pensionati, famiglie che abitano in campagna, tanti giovani. Negli ultimi anni c’è stato un grande incremento di vendite per via del ritorno alla campagna e, grazie ai giovani, è esplosa anche la vendita on-line. Siamo chiusi da 20 giorni e ci salviamo un po’ con quella, ma ad oggi abbiamo perso il 40 per cento del fatturato e siamo costretti a buttare ogni giorno migliaia di piantine. E se le misure attuali dovessero protrarsi rischiamo di perdere il 90 per cento della stagione.”
Se il 3 aprile terminassero le restrizioni, molte aziende avrebbero perso dal 40 al 60 per cento ma potrebbero sopravvivere. Se invece la chiusura dovesse protrarsi il rischio è il fallimento, con milioni di euro persi e decine di migliaia di lavoratori consegnati alla miseria.
Solo nel Veneto sono 1.600 le aziende florovivaistiche, ed impiegano complessivamente 50mila addetti per un fatturato annuo di circa 210 milioni di euro.
In Lombardia, la regione con la superficie agricola più estesa d’Europa e numeri che tirano l’intero settore, il disastro va considerato più che triplicato.
Sono nate in questi giorni varie iniziative di vendita on-line mediante portali dove è possibile vendere cibo e piante, ma costituiscono una goccia nel mare.

Alberto Cazzoli Steiner