L’economia collaborativa non si limita a sviluppare modelli pragmatici di produzione, commercio, scambio e consumo improntati alla solidarietà, ma è portatrice di un’energia nuova alle relazioni umane, spostando il focus dall’egocentrismo al sociocentrismo.
Spesso, e questo a mio avviso è un bene, senza l’intervento di uno Stato che non c’è, e se c’è crea solo problemi di elefantismo, sovrastruttura, miopia, carrozzoni per interessi clientelari.Uno dei principi fondativi della finanza etica è l’economia solidale attuata sostenendo il lavoro autogestito, finalizzato alla creazione di modelli di cooperazione e associazionismo di base alternativi al sistema economico tradizionale.
Proponendosi come nuovo modello economico, l’economia collaborativa – che possiamo anche evitare di chiamare sharing economy – è oggi uno dei temi del cambiamento epocale che sta portando enormi benefici in termini di valore del lavoro e del tempo libero, solidarietà e consapevolezza consentendo di rispondere alle sfide della crisi promuovendo modelli di consumo più consapevoli basati sull’accesso piuttosto che sulla proprietà.
L’economia della condivisione richiama antiche tradizioni, non solo in materia di mutualità e cooperativismo ma anche di comunità ristrette in villaggi che dovevano autosostentarsi il più possibile.
L’economia collaborativa ci aiuta a comprendere come un sistema ideale sia quello dove non serve possedere beni e servizi, ma avere la facoltà di utilizzarli quando necessario, pagandone il corrispettivo: una nuova versione di capitalismo, privo di connotati speculativi e che dal concetto di proprietà tradizionale indottoci dalle concentrazioni produttive, finanziarie e del marketing trasmigra ad un sistema su basi decisamente più paritarie e diffuse, favorendo l’accesso. In funzione delle loro peculiarità possiamo sinteticamente individuare alcune modalità:
Il consumo collaborativo, sostanziato da riutilizzo, baratto, impiego di risorse utilizzate in maniera inefficiente o della cosiddetta capacità inutilizzata. Sul web ne abbiamo esempi ormai noti: Blablacar, Airbnb, Ebay, Gnammo.
I finanziamenti collaborativi, noti anche come crowdfunding dall’inglese crowd, folla, che consentono di finanziare un progetto attraverso il concorso di numerose persone. La modalità equity rende possibile ad un gruppo di investitori di finanziare startup o piccole aziende in cambio di alcuni titoli che li fanno diventare proprietari di una parte del business. I titoli possono essere riacquistati dal finanziato ad una scadenza stabilita – generalmente dopo tre o cinque anni – per un controvalore che remuneri in modo equo e non speculativo il capitale investito.
La produzione collaborativa, o peer production, introduce invece nuovo modo di produrre beni e servizi che fa affidamento su una comunità di individui, cooperanti (spesso attraverso il volontariato) per il conseguimento di un obiettivo comune.E infine il microcredito: accompagna iniziative di economia sociale e finanza solidale venendo spesso confuso con la beneficenza. In realtà è un’attività finanziaria a supporto dell’impresa, individuale o sociale, prevalentemente nei comparti dell’agricoltura biologica, della trasformazione agroalimentare e più in generale nella tutela ambientale e territoriale, nei servizi per la cura persona, tecnici ed ausiliari, nella produzione artigianale, nel commercio equo e solidale, nell’educazione, nella formazione e nelle attività destinate alla socializzazione.
Non mancano esempi negli ambiti turistici, dell’arte e della cultura, nella tutela dei diritti dei soggetti deboli e della tecnologia. Come nel caso dell’immagine sottostante, ripresa il 23 maggio 2015 nella coinvolgente cornice dell’ex Arsenale austriaco di Verona quando si tenne Roboval 2015, la manifestazione dedicata alla robotica ed in generale all’innovazione organizzata dall’Associazione Verona FabLab ed incentrata su ragazzi decisamente creativi delle scuole superiori, che si incontrarono per mostrare e condividere invenzioni ed esperienze. Alcuni di loro hanno avuto accesso ad interventi di microcredito per sviluppare le proprie idee e farne un’attività imprenditoriale.

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Ed ora sfatiamo un mito. Come afferma Marco Gallicani nel suo Manuale del risparmiatore etico e solidale, edito da Terre di Mezzo nel novembre 2008: “Il microcredito non è un prodotto per poveri e tanto meno è uno strumento per l’eliminazione della povertà. Le caratteristiche elencate per chiarire cosa potesse intendersi come elemento d’innovazione nel brulicante mondo del microcredito italico non influenzano minimamente il necessario rapporto di clientela che si stabilisce tra affidante e affidato. Cionostante il logoro immaginario dell’alternativa ha ovviamente contagiato anche l’ultimo nato, ma questo ha solo giovato a chi lo ha voluto strumentalizzare.”
Molti credono erroneamente che il microcredito italiano nasca con Banca Etica, della quale conosciamo bene l’immagine eticochic con le sue seggioline pieghevoli, i suoi costi fra i più alti del mercato, le sue istruttorie da Sant’Uffizio. Tanto fumo, in passato anche di polvere da sparo con certi fondi etici dei quali avevamo scritto il 9 luglio 2015: Analisi del portafoglio di Banca Etica Sgr leggibile qui.Il microcredito nasce invece nel 1978 a Verona dal Movimento per l’Economia di Solidarietà capeggiato dall’avvocato Giambattista Rossi.
Chi si occupa di microcredito non si limita ad istruire una pratica, ma presta la propria opera anche nell’ambito dell’ascolto e dell’accompagnamento del soggetto sino alla restituzione del prestito ottenuto. Gli importi vengono generalmente erogati mediante una convenzione con il circuito delle BCC, le Banche di Credito Cooperativo.
Il microcredito è prevalentemente finalizzato all’avvio di un’attività imprenditoriale anche in assenza o inadeguatezza di storia creditizia ovvero in possesso di garanzie patrimoniali considerate inidonee dal credito tradizionale a causa della necessità di piccoli importi (non remunerativi per i parametri di reddito bancario) o addirittura di non bancabilità dei soggetti per assenza di garanzie, eventi pregressi o precaria situazione lavorativa.
Svolge anche un importante ruolo nel contrasto dell’usura e crea occupazione e inclusione sociale favorendo altresì l’educazione finanziaria.
Essendo paragonabile a un prestito d’onore il contenzioso è molto limitato e mai per ragioni che esulino da difficoltà oggettive, anche se in passato – quando la materia non era ancora adeguatamente regolamentata e l’esperienza ancora scarsa – accaddero episodi di particolare gravità.
L’attività microcreditizia ricorre anche allo strumento del peer-to peer, vale a dire prestiti tra privati strutturati attraverso l’aggregazione di un certo numero di piccoli prestiti, spesso ad un tasso di interesse trascurabile.
Numerosi studi dimostrano come il microcredito riduca la povertà creando opportunità di generare reddito, una maggiore occupazione e redditi più alti.
Alcune forme di finanziamento ad attività imprenditoriali sono possibili grazie al programma European Progress Microfinance Facility costituito dall’Unione Europea e, recentemente, la Provincia Autonoma di Bolzano ha istituito un proprio fondo di garanzia in collaborazione con la locale Camera di Commercio e con il Ministero per lo Sviluppo Economico: tramite l’iniziativa, che si rivolge ad aziende con meno di cinque anni di vita e in difficoltà nell’accesso al credito bancario, si possono ottenere crediti sino a 25mila Euro.
Istruire pratiche di microcredito non è difficile, bisogna solo prestare molta attenzione a fattori non finanziari, impossibili da classare nei software dedicati ai parametri finanziari. Detto in altri termini bisogna essere buoni conoscitori delle persone e delle aree di disagio, un po’ confessori, un po’ psicologi e… un po’ sbirri perché fare microcredito è oggi di moda e chiunque – da una parte e dall’altra – potrebbe approfittarne.
Dal punto di vista del soggetto beneficiario il microcredito è infine generalmente vantaggioso: gli oneri finanziari applicati sono agevolati perché manca nell’erogatore la componente del guadagno speculativo.
Alberto C. Steiner
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